Copertina Pino Tossici

 Book Salad (2012)

Partiamo dalla copertina. “…una fotografia che ho piazzato sul comò…sono io a cento giorni…Tre mesi e dieci giorni prima mi ero fatto strada con cinque chili e un cesareo…”

Quasi quasi informo Pino, in un afflato di ‘comprensione competitiva’, che alla mia nascita non ero stato da meno, pesando quattro etti più di lui e che entrambi –tecnicamente- potremmo attribuirci la denominazione scientifica di ‘giganti’.
Poi scorgo “…grasso da fare schifo, sembro il miracolo della reincarnazione del Budda…” e desisto dal mio proposito: la sua autoironia mi sembra già insuperabile.
L’autore in realtà è il primo fra i diplomati della LUA che pubblica la sua autobiografia e che non casualmente la presenta nella cornice del Festival nazionale dell’Autobiografia 2012 ad Anghiari. Con questa autobiografia –come dice Duccio Demetrio nella sua postfazione – ci dona immagini, pensieri e suggestioni, ed è questo che vale a rendere molto gradevole la lettura del volume, che pure accenna a verità pesanti. “Urgenza e furia, libertà ed ebrezza -evocati nell’incipit del volume- rappresentano quattro miti che richiamano Eros e caratterizzano di fatto tutte le autobiografie”, dice Demetrio parlando del libro e concludendo con un significativo: “La sua scrittura ha saputo sottrarre peso a se stessa”.

Ma veniamo allo stesso autore che descrive, come meglio non si potrebbe, il suo scritto nell’introduzione: “Cento giorni è il racconto della mia infanzia, della mia adolescenza e della mia famiglia…” e “Con tutta evidenza la figura che permea di sé il racconto è quella di mia madre, ma nella mia storia non poteva essere altrimenti.”
“Per mettermi qualche volta al riparo (…) ho tentato di servirmi dell’ironia come agenzia di intermediazione nei rapporti con il Dolore e l’Ombra…”, ci dice ancora, sintetizzando molto efficacemente la principale ‘chiave di scrittura’ utilizzata.
Ed è così che leggerezza della scrittura e tocco ironico sottolineano i diversi passaggi dall’infanzia all’adultità, senza evitare percorsi ‘scomodi’ e verità non facili, ma consentendo al lettore di apprezzare le doti non comuni espresse con modestia ed orgoglio.
Il ragazzo, infatti, aveva estro: declamava poesie di Trilussa; traduceva ad undici anni per diletto brani in latino; pulcino della Roma faceva parte del ‘vivaio’ e venne anche citato in diversi resoconti giornalistici; dopo la scuola di recitazione iniziata ad otto anni, recitava in teatri e teatrini romani oltre ad avere un piccolo ruolo in un film a Cinecittà con Alberto Sordi (‘Bravissimo’ del 1955, per la cronaca).

Ma doveva fare i conti anche con un equilibrio familiare non semplice, stretto fra un padre, Giulio, di natura mite e defilata che faceva ad un tempo da ‘collante’ e da ‘parafulmine’, mentre la madre, Titina, soggetta a frequenti scarti d’umore e con una spiccata instabilità emotiva, era un vero e proprio ‘uragano’.
Moltissimi gli episodi e le vicende familiari richiamate, che parlano dell’autore ma tratteggiano anche in maniera particolarmente dettagliata la crescente problematicità della relazione fra i genitori, e le innegabili ripercussioni sul percorso di crescita di un bambino che diventa adolescente.
Così ci si muove fra rievocazioni esilaranti come quella del primo bacio e l’epilogo con ‘la linea d’ombra’ di una sfiorata tragedia che farà dire all’autore: “L’undici settembre del 1964 –l’autore aveva diciassette anni- m’è toccato diventare uomo. E non ero preparato.”
Cosa dire, in conclusione? Certamente che la ricchezza di questo volume non è condensabile in poche righe e che sono sempre le parole dell’autore, poste a chiusura dell’introduzione,ad essere le più efficaci:
“Alla fine del viaggio mi resta comunque una certezza: la felicità esiste, o almeno a me sembra di averla incontrata. E se invece non esiste, se è stato solo un sogno o un miraggio, allora vuol dire che, scrivendo, si può essere felici anche senza.” (G.M.)